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Cittadinanza sanitaria. Scienza, potere, diritti

Nel pomeriggio dell’11 settembre scorso ci siamo incontrati per uno scambio di idee, esperienze, pratiche e progettualità sul tema “Cittadinanza sanitaria. Scienza, potere, diritti”. Ci siamo ritrovati in un centinaio per condividere coordinate utili a questo presente che comprendiamo con difficoltà, in cui sentiamo forte la lacerazione del tessuto sociale e altrettanto forte il bisogno di ritessere relazioni sulla base di rinnovate affinità. Ci siamo scoperti accomunati dall’insofferenza per la pervasività di un sistema dai mille imperativi, proibizioni e prescrizioni, ma i cui fini ci sfuggono.

Punto di partenza per la nostra riflessione è stata la denuncia di un limite comune, cortocircuito inevitabile: non riusciamo a scalfire il muro del significante unico, su cui si infrange ogni discorso: esiste un’unica malattia, il covid; esiste un’unica soluzione, il rischio zero; esiste un’unica dimensione dell’umano, la salute in senso ristretto; esiste un’unica funzione dello stato e della società, la protezione dal covid. È come se, nonostante gli sforzi di riaprire il pensiero ad una complessità di contesto, ad altre priorità di significato, una forza centripeta ci riconducesse sempre là, anche nella critica: al covid come unica malattia degna dello stupore di un’apocalisse e dunque, in fondo, indiscutibile.

Questo incontro ha avuto come obiettivo quello di mettere in rete riflessioni spurie e alimentare la nostra capacità immaginativa, proprio a partire da questa comune debolezza – il non poter fare a meno di parlare di covid – ma tentando di farlo innanzitutto considerandolo come un evento storico e dunque mettendolo in relazione con le diverse forze e dimensioni del divenire, quelle della conoscenza, del potere, delle lotte.

In quest’ottica abbiamo letto la pandemia come punto terminale di un ventennio che ci riporta direttamente al 2001, ai giorni di quel luglio a Genova, agli attentati dell’11 settembre. É infatti allora che venne meno la possibilità di rivendicare ed immaginare “un altro mondo possibile”,  non fu più ammesso alcun conflitto di fronte all’unico nemico “esterno/interno”: il terrorismo, indefinito e continuamente ridefinibile, che attacca i valori della civiltà occidentale. È stato all’indomani dell’11 settembre che il valore della sicurezza è diventato avamposto capillarizzato del potere, a discapito delle libertà, in particolare quella di movimento e quella di aggregazione: da quel momento in poi furono bloccati i grandi flussi migratori, inventato il reato di clandestinità, costruiti muri, lasciate le persone affogare. La cura peggiore del male.

Intanto, mentre la civiltà occidentale si autopercepiva come fortezza assediata, via via le periferie dell’impero entravano nell’orbita di altri imperi economici. A distanza si vede che l’equilibrio mondiale è cambiato: gli Stati Uniti non sono più i gendarmi del mondo, né l’economia trainante. Per il capitalismo occidentale la scommessa di ristrutturazione capitalistica passa per l’investimento nel virtuale, ma è anche la condizione di possibilità di rinforzare il controllo e la sicurezza di frontiere sempre più strette. Il lockdown, la dad, le piattaforme per il mercato, il green pass non sarebbero stati possibili senza le infrastrutture già esistenti e senza i promessi investimenti. Il digital (green) New Deal ci pare sia la sussunzione ulteriore di ogni spazio-tempo e di ogni attività umana.

Nell’arco di questi vent’anni un “altro mondo” sembrava diventato impossibile, segno di questa impossibilità è che perfino le parole del “movimento dei movimenti” sono oggi completamente sparite, estromesse dal discorso. Nel frattempo però noi, sconfitti di allora, stavamo quantomeno provando a immaginare e disegnare “altre” vite e relazioni, piccole comunità, lotte locali. Siamo oggi davanti alla fine di “altre vite possibili”? Questa è forse una triste suggestione, ma ci viene suggerita dall’ordine del discorso, un discorso mutuato senza soluzioni di continuità dalla guerra al terrorismo (la sicurezza come unico valore, la guerra preventiva e la tolleranza zero) alla guerra al virus (che attacca la vita occidentale, senza la quale non possono esistere i valori occidentali). Senza questa retorica ricorsiva, avremmo potuto vivere da vent’anni in una perenne emergenza e in una progressiva erosione della politica?!

ORGANIZZATORI

Usciamo dagli sche®mi è il nome collettivo che abbiamo scelto per rivendicare il diritto ad una vita degna, una vita distante dal suo surrogato – l’esistenza virtuale – e che invoca uno spazio pubblico e un tempo legittimo. Abbiamo lottato assieme per la riapertura delle scuole in Campania (e non solo!), per l’agibilità di spazi pubblici, per la mobilità sostenibile. Nei mesi in cui il confinamento delle zone rosse impediva ad adulti e bambini ogni socialità, Santafede Liberata ci ha ospitati in diverse occasioni.

Gli abitanti di Santafede fanno sì che questo spazio ricrei la fisionomia comunitaria di una piazza, luogo di incontro della realtà resistente alla turistificazione e dalla gentrificazione.

Di seguito, interventi e tracce audio dei relatori.

Apre Michele Ravagnolo sul tema della costruzione della verità. Definire la realtà è in sé un atto politico, ma in questo contesto pandemico è un atto che avviene unidirezionalmente e dall’alto, tanto che, come ci racconta Sara Gandini, è sottratto anche alla comunità scientifica, dal momento che il dubbio è fortemente sconsigliato. Tuttavia, se sono sospese le costruzioni politiche condivise, ci sono invece processi che stanno accelerando, tra questi la distruzione del welfare. A questo proposito Salvatore D’Acunto affronterà il tema, tanto retoricamente utilizzato, del guadagnarsi l’assistenza sanitaria. L’intervento finale di Toriello chiude il cerchio riportando il concetto di salute in una prospettiva sistemica, il che pensavamo fosse divenuto patrimonio collettivo, ma sembra ora perso per i più.

Segue una ricostruzione dell’ampio e partecipato dibattito.

Infine, due contributi EXTRA di ospiti previsti a distanza, ma che, per problemi tecnici, non ci sono stati. Ilaria Durigon sull’impossibilità di agire pensando in tempi di emergenza  e Giovanni Iozzoli sul conflitto capitale-lavoro in tempo di pandemia.

INTERVENTI

M. Ravagnolo – La verità è democratica. Spazi pubblici condivisi e dispositivi di potere.

 

S. Gandini – Quando gli scienziati vanno alla guerra (pdf)

S. D’Acunto – Chi è causa del suo mal si paghi le cure (pdf)

 

A. Toriello – Dove osano gli angeli. Una visione sistemica della salute.

 

DIBATTITO (pdf)

EXTRA:
I. Durigon – Vite passive (pdf)

G. Iozzoli – Obbligo vaccinale e obbligo padronale (pdf)

Restare a casa

La pandemia è stata gestita in Italia principalmente secondo l’imperativo moraleindividuale del “restare a casa”. Un sistema di protezione innanzitutto inapplicabileper tutti: molti dovevano comunque uscire per guadagnarsi da vivere e permettere achi restava a casa di ricevere merci, servizi. Il confinamento domestico risulta ancheessere un sistema di protezione limitato, in quanto risulta efficace solo in rapporto alcontagio, mentre non tiene conto dello stato di salute generale che può risultarecompromesso da un prolungato periodo di segregazione e sedentarietà. Inoltre risultaparadossale perché vorrebbe fare salva la vita oltrepassandola (“sopravvivenza”)senza che questo ‘passare oltre’ abbia un termine, l’oltre viene continuamentedifferito. Restare a casa è anche paradossale perché fa leva sulla responsabilità versogli altri proprio allontanandoli dalle nostre vite.Ma come si è arrivati alla obbligazione morale individuale come unica strategia perfronteggiare il virus?Perché oggi lo Stato – dopo decenni di smantellamento del welfare – non garantiscepiù la cura e la protezione della vita. Su cosa fonda allora il suo potere? Su di un’eticaimprenditoriale in cui l’impresa è il soggetto e il cui primo comandamento è ilselfhelp: salvati da solo! La razionalità neoliberale ha operato il progressivotrasferimento sul piano individuale del rischio. Ciascuno deve essere imprenditore disé stesso. Il rischio individuale viene progressivamente gestito non più dallo Stato,quanto dalle imprese o dalle condotte individuali. Tuttavia lo Stato, pur non assumendosi il costo e la responsabilità, continua adecidere quale sia il rischio portando inoltre il livello della decisione ad un obiettivoirragiungibile: il rischio 0, pura illusione. La privazione risulta dunque l’ unicaingiunzione possibile per inseguire la chimera del rischio 0, chimera facilmenterecepita da un “neo-soggetto” provato e affaticato dalla “prestazionalità” e affetto datempo da demoralizzazione, depressione, desimbolizzazione.

Finché Caligola è vivo

Finché Caligola è vivo,
io sono alla completa mercé del caso e dell’assurdo”
(A. Camus, “Caligola”)

Le raccomandazioni scriteriate non coprono l’arbitrio, quello che docenti, dirigenti scolastici, alunni e famiglie si troveranno a dover fronteggiare dalla settimana prossima.

A pochi giorni infatti dalla riapertura delle secondarie di secondo grado – già in colpevole ritardo rispetto al resto del paese e all’Europa -, il governatore De Luca, Caligola nostrano, emana un “atto di richiamo”. Con spirito paternalistico delegittima di fatto le indicazioni del governo nazionale, nonchè le capacità politiche e gestionali dei suoi cittadini, in una raccomandazione in vari punti:

1) gioco al ribasso, rientro al 50% (e giammai al 75% come il dpcm permette). Un 50% che ritiene relativo a singole classi, senza alcun criterio numerico di massima né rapporto alla metratura.

2) possibilità per i genitori di optare per la didattica a distanza. Aprire la scuola all’opzione del singolo è quanto mai pericoloso: se la scuola è spazio eminentemente pubblico, non si può delegare alle perplessità e alle paure di ciascuno la decisione relativa alla sua fruizione.

3) gli ingressi degli alunni non scaglionati, in favore del punto 1 – in barba alle indicazioni del Ministero degli Interni del 23/12 a cui hanno fatto seguito diversi tavoli in Prefettura a cui hanno partecipato anche componenti dell’assessorato regionale.

L’idea che si possano scompaginare le organizzazioni fatte da tempo e secondo criteri, l’idea che fino all’ultimo istante – a fronte di circostanze non mutate – si possano sparigliare le carte, è figlia del peggior autoritarismo.

Sono sintomi di abusi di un potere che però così facendo rivela le sue fondamenta traballanti: abbiamo di fronte un rappresentante politico che fuori dai denti di fatto raccomanda di non credere agli sforzi dello Stato che egli stesso rappresenta e finanche ai propri stessi sforzi (ammesso che ci siano stati). Questo potere che usa la paura, ma che ha paura a sua volta, dimostra di non avere legittimità alcuna.

Rispediamo al mittente le sue raccomandazioni e chiediamo le dimissioni immediate del governatore della Campania.